È la fine dell’800 quando un tal Philip Gengemnbre Hubert, figlio dell’architetto francese Colomb Gengembre e grande fan delle idee di Charles Fourier, acquista sette lotti a ridosso del quartiere Chelsea di New York per costruire quello che nella sua mente era la trasposizione fisica del concetto fourieriano di falansterio e che poi di fatto è diventato un vero e proprio monumento: il Chelsea Hotel.

L’architettura è quella tipica del XIX secolo, un po’ pesante, ridondante e atta più a contenere che ad esibire. Di fatto il Chelsea, se pure nominato hotel, termine che da noi europei è interpretato come luogo di passaggio e villeggiatura, era sorto più che altro con l’intento di essere un residence dove sostare a tempo indeterminato. Ottanta gli appartamenti al suo interno di metrature diverse, di cui una cinquantina da dare in vendita e trenta in affitto.

Il nome di questo albergo, il cui futuro oggi è più che mai incerto, dopo un cinquantenario di vita sonnacchiosa post apertura, iniziò a destare curiosità negli anni cinquanta per via di un ospite alquanto speciale, Dylan Thomas. Il poeta gallese, dal 52 al 53, anno della sua morte, soggiornò infatti nella stanza n.205 del Chelsea, la stessa che lo vide vivo per l’ultima volta dopo una colossale sbronza che lo portò al coma etilico e al decesso.

Dopo Thomas, le camere fatiscenti e allo stesso tempo affascinanti di questo albergo popolare, avrebbero ospitato personaggi del calibro di Arthur Miller, Andy Warhol e Mark Twain. Così come Sid Vicious e la sua compagna Nancy Spungeon, residenti dell’appartamento n. 100, Dee Dee Ramon, Stanley Kubrick, Bob Dylan, Leonard Cohen con Janis Joplin e molti moltissimi altri artisti. Tutti attratti da quell’aura un po’ gotica da vecchio maniero maledetto, ma anche dalla sua proverbiale tutela della privacy.

Fu lo stesso Cohen a definire infatti in Chelsea come “un albergo dove alle quattro del mattino potresti portarti in camera un nano, un orso e quattro signore senza che qualcuno se ne curi”. E in effetti l’Hotel che Hubert aveva immaginato come una sorta di “comune”, è di fatto stato per anni una dimensione parallela abitata da artisti decadenti, ospiti di passaggio, nomi noti al jet set mondiale e perfetti sconosciuti, in grado di convivere perfettamente come in una grande famiglia.

Oggi il Chelsea, dopo rocamboleschi cambi di proprietà, tentativi di ristrutturazione evidentemente non andati a buon fine e la commemorazione a Lou Reed dello scorso anno, ha un destino non noto. Il mitico albergo che diede i natali ad opere come 2001 Odissea nello Spazio di Arthur C. Clark o l’album Blonde on Blonde di Bob Dylan, infatti si trova ad oggi in un limbo da cui non si sa se, quando e come potrà uscire.

Dopo aver ridotto da “data da destinarsi” a 24 le notti consecutive concesse agli ospiti, il Chelsea ha via via esaurito la sua disponibilità all’accoglienza. Chi ha la fortuna di aggirarsi per New York può ancora fare una foto dinanzi all’entrata, immaginando la hall disordinata e puzzolente degli anni di massimo splendore, quando le star e gli artisti bohemien scrivevano la storia del cinema, della letteratura e della musica in ogni angolo.

Un po’ tetro, un po’ zingaro, irresistibile come tutto ciò che è proibito, il fascino del Chelsea trasuda da ogni muro, da ogni finestra e da ogni ringhiera scura appollaiata su quel grosso parallelepipedo di mattoni rossi che si affaccia sulla 23esima strada fra la ottava e la settima avenue. Il futuro di questo gigante di pietra non si conosce, invece si sa per certo che la sua fama è destinata a restare immortale.

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ultimo aggiornamento: 23-07-2014