Renzo Piano si racconta: l’architetto italiano senatore a vita, vincitore di prestigiosi premi, una delle persone più influenti del mondo, a 78 anni non ne vuole sapere, giustamente, di fermarsi. In occasione del suo intervento all’Auditorium Parco della Musica, durante la Festa del Cinema di Roma, si è raccontato in 10 punti:

  1. Quando finisco un edificio mi nascondo e guardo con attenzione la faccia che fa la gente, così guardo le loro reazioni e guardo il mio lavoro attraverso quegli occhi.
  2. Fare l’architetto è un mestiere avventuroso e non in senso metaforico. In Nuova Caledonia durante la costruzione del Centro culturale Jean-Marie Tjibaou abbiamo avuto quattro tifoni, a Osaka per l’aeroporto su 38 mesi di costruzione abbiamo avuto 36 terremoti e a Berlino durante la ricostruzione di Potsdamer Platz nel ’92 dopo la caduta del muro trovammo nel cantiere bombe inesplose della seconda guerra mondiale. Ma non è tutto, forse non si sa ma nei cantieri abbiamo anche alpinisti e pure minatori: mentre realizzavamo il grattacielo di Londra Shard avevamo 20 alpinisti e altrettanti minatori che, tra l’altro, hanno scoperto una villa romana nel sottosuolo.
  3. Il cantiere è un luogo di tolleranza, possono esserci 1500 persone, a Londra ne avevamo di 70 nazionalità diverse. E’ un lavoro di equipe che va tenuto insieme con autorevolezza, come fossi un direttore d’orchestra.
  4. L’architetto lavora per pezzi, frammenti, che poi devono diventare un tutto, è come fare un mosaico e devi sperare che tutto s’incastri per bene altrimenti è una tragedia.
  5. Architetto o artista? Arte, umanesimo, tecnologia un po’ tutto: alle 9 sei un poeta, alle 10 un architetto, alle 11 sei un sociologo, in tutta la giornata cambi continuamente.
  6. L’arte è per la gente, la bellezza è utile. Non è un’idea romantica, questo lo pensano solo gli schiocchi. La bellezza aiuta a rendere la gente migliore e aiuta anche a cambiare il mondo non lo fa tutto insieme ma goccia a goccia.
  7. Cinema, architettura, musica: sono tutte cose simili, basate sulla capacità straordinaria di fare cose. Gli architetti sono poeti pragmatici , occorre saper costruire.
  8. Il cinema è una mia grande passione, a Genova ci sono cresciuto, film western e d’avventura. Nasci in provincia e ti viene voglia di scappare, scoprire altri mondi e hai il mare davanti o le immagini dei film.
  9. Beaubourg: è un lavoro che appartiene alla mia adolescenza. Io avevo 33 anni, Richard Rogers (i due si erano conosciuti qualche anno prima a Londra all’Architectural Association School of Architecture ndr) 36, vincemmo con Gianfranco Franchini del tutto inaspettatamente il concorso il concorso internazionale per la realizzazione del Centre Georges Pompidou battendo centinaia di concorrenti da tutto il mondo. Io vivevo a Londra, portavo i capelli lunghi, eravamo con Richard davvero due matti, due ragazzacci e vincemmo con un progetto che voleva essere un insulto all’elitarismo dei luoghi della cultura. Non abbiamo fatto nulla di rivoluzionario (il centro Pompidou nel cuore di Parigi accanto a Le Marais, tra palazzi d’epoca è un cubone high-tech ndr), abbiamo interpretato un cambiamento e se non lo avessimo fatto noi lo avrebbe fatto qualcun altro. La cultura passa attraverso aperture e accessibilità e lo credo ancora oggi. Eravamo scavezzacolli, per noi fare quel tipo di progetto era disubbidienza civile , ce lo hanno lasciato fare solo perchè non hanno capito cosa stavamo facendo, ma attenzione non è avanguardia perchè l’architettura ha bisogno di tempi lunghi, è piuttosto interpretare un cambiamento e questo certo può essere scomodo.
  10. Le radici sono un terreno fertile straordinario, continui tutta la vita a ripassare la storia che ti appartiene. Basta non costruirci sopra castelli di retorica. E’ il mondo local che diventa il tuo universale, il tuo timbro. Non lo stile che invece è un’idea cretina, banale e commerciale. La memoria, le radici vissute e masticate sono qualcosa di intimo, preferisco non pensarci, ti appartengono e ti nutrono. Io ad esempio penso che l’attenzione per la leggerezza, la luce, l’avversione alla forza di gravità derivino dal mio mondo che è quello di Genova, del mare Mediterraneo, dell’acqua salata per esattezza che è un consommè di culture, un mare che registra tante voci, anche disperate in questi tempi. Il mio mare è quello del largo e allo stesso tempo del porto, una città che galleggia e dove tutto vola, è mobile. Quest’acqua, questa luce sono nel mio lavoro, non c’è nulla di romantico, sono le mie radici e me le ripasso continuamente.

Via | Ansa

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ultimo aggiornamento: 26-10-2015